SOCETA' BIOFILA


Ciao sono Roberta la moglie di Philipp e co-creatrice di questo blog. Io non sono buona ma neanche cattiva. Io sono una persona misantropa che si sforza di adattarsi in un mondo come questo e se profetizzo, lo faccio per cambiare il mondo perché qui, nel mondo, esiste solo un unico essere vivente che porta la maschera: l'uomo. Invece, se contempliamo ogni essere vivente sulla Terra, oltre l'uomo, è evidente che è genuino e sincero perché ci mostra chi è realmente manifestandosi così per come si sente mentre l'uomo a causa della sua ipocrisia è diventato un menzognero, un ottuso, una caricatura, un crudele, la cui vista è ripugnante. I suoi vizi, la sua crudeltà verso i suoi simili, verso gli animali, verso l'ambiente e verso ogni cosa gli sta attorno, mi ha convinto sempre di più della naturale inclinazione dell'uomo alla cattiveria "lupus est homo homini". L'essere umano appare alla Terra come un verme abominevole che si nutre d' ignoranza e crudeltà e che non sopporto. Ma l'uomo non è consapevole delle proprie azioni perché è diventato un automa intrappolato dagli schemi mentali che la società ha creato. Per questo motivo io sono qui per aiutare gli altri che mi stanno intorno a riflettere su cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ognuno poi sceglierà quale delle due strade seguire...
Ora permettetemi di uscire dal discorso veganesimo, e di dire due paroline a questa nostra società che si professa biofila e dai forti ideali cristiani, sempre pronta a lottare in nome del diritto alla vita ( lotta contro l’aborto, contro l’aids, contro l’eutanasia), però questa stessa società condanna noi disabili, esseri umani come tutti, ad una “morte sociale” attraverso dosi quotidiane di silenzi,  gesti, parole, inganni, omissioni, rifiuti  ed esclusioni. Insomma, ci condanna all’emarginazione, perché “ colpevoli” di non essere adeguati allo standard della cultura dominante , ovvero di non essere fisicamente perfetti o efficacemente produttivi, fino a convincerci di essere solo dei burattini in gabbia da mostrare nelle sagre della beneficenza, per fare emergere la bontà dei “normali”. Ma in quale trappola di questa società gretta, ipocrita ed ignorante siamo caduti? Nella trappola della società che, fatta di tanti meandri, ci sottoponeva, ci sottopone e ci sottoporrà sempre, finchè non cambi il suo DNA, ad un condizionamento psicologico che ci vuole e ci fa sentire “diversamente diversi”: per la medicina siamo i  malati; per la chiesa siamo gli “eletti”, che con la nostra sofferenza ci uguagliamo alla passione di Cristo; per il mondo del lavoro siamo zavorre improduttive; per molte associazione siamo soggetti da usare per raggiungere i propri scopi; per la famiglia siamo una disgrazia; per la gente siamo persone da compatire, visto che ai loro occhi le nostre carrozzine sono garanzie di infelicità; per alcuni intellettuali siamo l’occasione per scrivere manuali di sociologia e schierarsi solo a parole contro pregiudizi e stereotipi; per lo Stato semplicemente non siamo nessuno. Contro questo processo di perdita del valore autentico della vita, io vorrei  testimoniare  come in questa società, che mi ha imprigionata in una “etichettata  diversità”, io sia riuscita a trasformarla in una “incontrastata  libertà”. Ed inoltre voglio offrire un contributo a chi come me vive questa diversità, affinchè diventi per loro uno stimolo per guardare sempre al futuro e dia loro la forza per far valere i nostri diritti.



A volte mi capita di sintetizzare il mio pensiero sulla vita e sul mondo della disabilità usando l'espressione tanto usuale, quanto carica di densi significati: "faccio quello che posso".
Tale espressione ad un primo e fugace sguardo suggerisce ad alcuni la seguente interpretazione: « faccio quel tanto che non mi stanchi, faccio quel tanto che basta e non oltre». Così si ricava un'impressione di passività, resa e non-voglia.
Però, se riflettiamo più a fondo, scopriamo anche altri possibili significati.
Faccio quello che posso si potrebbe tradurre, ad esempio, come faccio quello che mi è concesso di fare poiché non ho alcun aiuto per poter fare di meglio e di più.
Ciò dà, invece, l'idea di una sfida che ciascuno ponendosi delle mete deve raggiungere secondo le proprie potenzialità, ma è anche un grido, una denuncia alla società, perché rimuova quei paletti culturali e architettonici, che ostacolano il compimento naturale delle azioni, delle idee, dei sogni di un cittadino disabile.
Infatti, non sempre la società dà la possibilità a persone con disabilità di fare ciò che possono e che vogliono fare, non sempre le mette in condizione di poter agire, anzi spesso le ostacola.
Sì, è vero spesso la società fa quel che può nell'aiutare chi ha vissuto e vive una situazione di svantaggio. In molti casi, però, si limita a fare quel tanto che basta senza magari dare peso e prestare la giusta attenzione alla loro volontà di dare e di poter raccontare esperienze vissute oltre quei limiti, quelle soglie che sono irraggiungibili dalle persone cosìdette normodotate ed, invece, fanno parte del mondo speciale della disabilità.
Un mondo speciale, dicevo.....speciale poiché, dicono gli
"altri" particolarmente sensibili, sia fatto di persone speciali, persone con un alto grado di sopportazione del dispiacere, ma al tempo stesso dotati di una straordinaria cognizione del senso della vita e di un forte apprezzamento per il bello di questa.
Speciali anche perché cambiano le prospettive, i punti di vista, le coscienze, le interpretazioni del modo di vivere e pensare.
Un mondo difficile da accettare, e ancor più, per riconoscersi in esso.
Tra i tanti individui che popolano questa "comunità" speciale, nonostante tutto, io mi ritengo tra i più fortunati.
Io vivo questo mondo da circa tredici anni, da quando la mia malattia è venuta fuori costringendomi a vivere la quotidianità su una carrozzina.
Eppure, la carrozzina è il male minore.
Oltre ai tanti problemi che un disabile ha, derivanti dalla propria patologia, le famose "barriere" rendono questa condizione di svantaggio ancor più umiliante di quanto già possa apparire.
Ma,  io  non  mi  riferisco  principalmente  alle  barriere architettoniche, il disagio è maggiore di fronte a quelle culturali.
Affrontare la società, stare a testa alta in mezzo alla gente, una società che ti guarda con pregiudizi, con paura quasi, solo perché ti vede diverso...
Tuttavia, come ho già detto prima, mi ritengo piuttosto fortunata, a tal punto da essere pienamente consapevole che questo aspetto della società non deve essere un problema mio, ma un problema, anzi un vero e proprio handicap, della società stessa.
E' necessario un approccio diverso: quando si parla di questo tema, le frasi ricorrenti sono "il disabile non va compatito ma aiutato", "abbattere le barriere significa eliminare o quanto meno diminuire quella condizione di svantaggio", ecc... .frasi sacrosante.
Ebbene, allo stesso modo di una persona disabile, bisogna appunto aiutare la società a capire che un disabile può fare,
dire, pensare, amare come tutti gli altri. Quindi, abbattere quelle barriere, infondendo nella gente la cultura della diversità.
Quindi, spero, che questo mio scritto possa servire d'esempio per quelli che hanno ancora una possibilità di abbattere le barriere fuori e dentro di loro.

                                  Tratto dalla tesi di laurea di Roberta Veg Salvemini

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